Si fa presto a dire che in Italia si mangia bene. Ormai, in maniera quasi fastidiosa, sembra che sappiamo fare bene solo quello!
Incontrare Livietta, studiosa per lavoro e per passione, è stata una occasione di approfondire il mantra dell’eccellenza del buon cibo Italiano. E’ stato un piacere ascoltarla e leggerla.
“A Marradi si mangia bene. Non è una novità. Nei ristoranti, ma anche nelle case degli amici, si avverte la persistenza di una tradizione antica, un’esperienza sapiente nella scelta degli ingredienti, in certe combinazioni dolce-salato, perfino nell’eleganza del mettere in tavola. Qualcuno ha fatto da maestro nel passato ai marradesi? Io penso che siano stati, in buona parte, i monaci della. Questi nostri frati vallombrosani che, secondo una leggenda da loro stessi creata, fondarono il villaggio di Marradi poco dopo l’anno Mille, restarono poi per quasi otto secoli con la loro piccola comunità nel monastero dedicato a Santa Reparata, sul torrente Rio Salto, affluente del Lamone. Erano monaci, ma anche pionieri innamorati della montagna appenninica. Non gli bastava pregare, cantare, badare ai pellegrini e ai malati, far bella la chiesa con le immagini dell’arte. Agli inizi della loro storia dissodarono le terre inselvatichite, impiantarono i castagneti, terrazzarono i monti per far crescere le viti, innestarono gli alberi da frutto. Uno di loro, a turno, cucinava per tutti. Ogni giorno sedevano insieme a tavola, a ristorarsi dalle fatiche di tanto lavoro. In un modo che si direbbe moderno, vicino ai criteri e al gusto di oggi. Intanto erano, quasi del tutto, vegetariani. Consumavano le verdure del loro orto, il cacio dei loro poderi, le uova, il pesce fresco di fiume o quello conservato, i marroni d’autunno e anche d’inverno. La carne era un’eccezione. Si dava ai malati, o si serviva nei pranzi di ricevimento, quando saliva al monastero qualche autorità, come l’abate generale di Vallombrosa, il Vescovo di Faenza, o il Capitano del Popolo di Marradi. I monaci campavano a lungo, a differenza dei poveri, sempre affamati, ma anche dei signori, mai sazi di ingozzarsi di carni allo spiedo. Si racconta che Carlo Magno, il grande Imperatore, nonostante i continui attacchi di gotta, dolorosissimi, non accettò mai il consiglio del suo medico, di lasciare gli arrosti e preferire le carni lessate. La carne arrostita al fuoco esprimeva simbolicamente virilità, coraggio, forza guerresca. I monaci, saggiamente, erano parchi. Le razioni erano stabilite dall’antica Regola benedettina: quanto pane, quanto vino… Ogni tanto digiunavano, seguendo le prescrizioni dell’autorità religiosa; e oggigiorno si comincia a capire quanto un po’ di digiuno sia utile alla salute. A tavola sedevano insieme, composti, come suggerivano le Consuetudini vallombrosane. Era d’obbligo avere le mani pulite, non sbocconcellare il pane, non trangugiare il cibo con ingordigia, “non usare il tovagliolo per pulirsi il naso” (sic!), non sporcare la tovaglia, non portare il bicchiere alla bocca se non dopo averla detersa… Una compostezza che ai nostri occhi è anche garbo e raffinatezza. In silenzio, mentre uno di loro leggeva con calma, sapevano dare al cibo apprezzamento e giusto valore simbolico. Il pane: fatto col grano dell’abbazia, cotto nei suoi forni, abbondante sulla tavola, poiché la Regola ne prevede quasi mezzo chilo al giorno. E però non se ne devono sprecare neppure le briciole. Il vino, che non è affatto proibito agli uomini di Dio, ma prescritto, con moderazione, per sostenere il corpo e lo spirito, e la razione può aumentare per chi ha lavorato nell’orto o nei campi, per chi è vecchio o malato. Tutto il resto si produce a chilometro zero: sono zuppe, legumi, frittate, sottaceti, talvolta pesce, marroni e frutta fresca. Per le feste è ammessa qualche golosità, e allora si mettono in tavola menù speciali, di grasso e di magro, si usano spezie fini, si preparano dolci e sorbetti, si servono grappe e liquorini. L’abbazia ha una sua ”conserva della neve” per tenere in fresco le provviste e talvolta si serve di cuochi professionisti, monaci o laici, creativi apprezzatissimi nella comunità. In un libro di memorie del 1630-l’anno della grande peste- l’abate annota con tono di particolare rimpianto: “Il 10 0ttobre passò a miglior vita fra Simone, che aveva esercitato l’uffizio di cuoco squisitissimo con soddisfazione e gusto di tutti gli monaci mediante la sua pulitezza e diligenza nel cucinare”. Ma- vi chiederete- come si trasmette ai marradesi fuori dalle mura del convento la sapienza alimentare dell’abbazia? È semplice: per contatto diretto. I monaci vallombrosani, fatti salvi i primi due secoli, non praticano la clausura. Al contrario: le porte sono aperte ai laici, e c’è un via-vai di gente continuo. Contadini, boscaioli, muratori, manovali, fabbri, sorveglianti, fattori, conversi, gente di passaggio che chiede ospitalità, artisti al lavoro per la chiesa… Così, chi entra guarda, apprezza, impara. Il monastero fa scuola, e lascia il segno nella tradizione”.
Grazie Livietta .